Disclosure: cosa, quando, a chi e come

disclosure-abusoCos’è la disclosure?

Nella società di oggi il trauma e l’esposizione al trauma sono sempre più compresenti; in particolare, l’abuso sessuale, soprattutto infantile, è un fenomeno che turba profondamente il bambino, comportando conseguenze a breve e lungo termine che possono andare a influire significativamente sul percorso di crescita, inficiando non solo le sue future relazioni interpersonali, ma anche la capacità di raccontare gli abusi subiti.

Tuttavia, è importante che bambini e adolescenti riescano a raccontare a qualcuno l’abuso che hanno subito in modo da interrompere il ciclo di abusi e in modo da poter ricevere il dovuto aiuto e supporto il prima possibile. La disclosure consiste proprio in questo: è la rivelazione del bambino circa l’abuso o gli abusi subiti (Debra Allnock, 2010).

Una delle autrici che si è maggiormente occupata della disclosure è Ramona Alaggia (2004), la quale ne individua tre tipologie:

  • Accidental Disclosure: situazioni in cui l’abuso viene scoperto da qualcun altro, ad esempio attraverso l’osservazione o esami di tipo medico;
  • Purposeful Disclosure: situazioni in cui il minore stesso racconta intenzionalmente a qualcuno l’abuso subìto;
  • Prompted/Elicited Disclosure: situazioni in cui le autorità, i professionisti, i genitori o altri adulti incoraggiano un bambino, restio, a raccontare l’abuso.

Quando avviene la disclosure?

Jensen et al. (2005) suggeriscono che la disclosure è, fondamentalmente, un processo dialogico, nel quale i bambini hanno bisogno di percepire la possibilità di parlare tranquillamente di quello che gli è capitato. La rivelazione, infatti, è il primo passo di un processo che ha inizio con l’assicurazione che ciò che è stato vissuto è davvero anomalo. I bambini infatti possono aprirsi solo quando riescono a pensare che quello che hanno subìto non era un gioco, né uno scherzo, che non era piacevole e che agli altri bambini non succede.

Dalla letteratura emerge, inoltre, che ci sono dei fattori che fanno sì che il minore aspetti a rivelare l’abuso anche per molto tempo. Si può dire che diversi autori individuano come fattori predittivi del ritardo della disclosure l’età di esordio degli abusi (e quindi anche l’età del minore), il tipo di abuso, la paura di conseguenze negative, la percezione del minore di esserne colpevole e responsabile e l’uso da parte del sex offender della coercizione.

A chi si rivela l’abuso?

Il bambino appare poi selettivo nella scelta della figura alla quale eventualmente rivelare l’abuso e, in genere, prima della rivelazione vera e propria, “sonda il terreno”, partendo da affermazioni più vaghe o periferiche per arrivare poi alla narrazione centrale, solo dopo aver verificato che la persona prescelta sia effettivamente interessata, disponibile ad ascoltare, a credergli e aiutarlo (D’Ambrosio, 2000). Nonostante l’importanza di rivelare l’accaduto a professionisti e autorità al fine di interrompere il ciclo, la maggior parte di bambini e adolescenti scelgono di non parlare con queste figure, ma preferiscono confidarsi e ricercare il supporto di membri della famiglia (madri, zie e/o fratelli e sorelle) e amici. Poche invece sono le rivelazioni spontanee fatte, come già accennato, alle autorità e ai professionisti, ma tra tutti i professionisti, le maestre sono le più cercate (Debra Allnock, 2010).

Come viene raccontato l’abuso?

La natura stessa delle conseguenze della violenza può condizionare la capacità di narrare gli abusi, compromettendo anche la memoria autobiografica: i racconti sembrano permeati da senso di colpa e auto-attribuzione di responsabilità, comportando nella maggior parte delle volte anche una notevole riduzione dell’autostima. Spesso sono anche narrati episodi annessi di perdita del controllo sulla propria persona. Inoltre, la paura e la vergogna fanno sì che nei racconti vengano usate spesso metafore e iperboli, poiché il bambino vittima d’abuso può esagerare o esaltare alcuni aspetti che l’hanno maggiormente disturbato nell’evento traumatico; ciò perché sente di non possedere le parole adeguate per descrivere l’intensità delle emozioni che ha provato (Miragoli, Di Blasio & Procaccia, 2009).

Può capitare anche che il bambino provi a contrastare il suo senso di impotenza provato durante l’abuso con la fuga nella fantasia in cui egli sia forte e invincibile, raccontando, ad esempio, di aver reagito all’abuso oppure riportando elementi distorti dell’atto subìto. In generale però si può affermare che la narrazione degli eventi traumatici non sempre è completa ed esatta, ma, anzi, graduale, frammentaria, contraddittoria, così come frequente è il ricorso a ritrattazioni e negazioni (London et al., 2005).

Pertanto, per concludere, a mio parere è facile capire come tutta questa serie di circostanze e fattori influenzino in maniera significativa e, talvolta, compromettente, la capacità di rivelare, tanto più se l’oggetto della rivelazione riguarda un abuso sessuale e se il soggetto in questione è un bambino.

 

Scritto dalla dott.ssa Elena Parise, psicologa

 

Per approfondire il tema (per genitori e insegnanti):

 

 

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