Hiv, un virus senza controllo che non conosce dogane

Intervista a Massimo Andreoni, Ordinario di Malattie infettive, Università di Roma Tor Vergata

Trent’anni dopo quei primi casi identificati in giovani bianchi americani, descritti dalle autorità sanitarie statunitensi con cautela e prudenza per la bizzaria che presentavano, una polmonite causata da Pneumocistis Carinii e uno strano tumore che in genere era endemico solo in alcune aree e per di più tipico nella popolazione anziana: quali sono oggi i numeri dell’Aids nel mondo?

Sono trent’anni che il virus è diventato cittadino del mondo, senza che nei suoi spostamenti abbia mai dovuto mettersi in fila alla dogana o subire battute d’arresto di fronte a muri, metaforici e reali, che l’uomo tenta di erigere per modificare il destino delle collettività che con la costruzione delle mura vorrebbe proteggere.

Da quel 5 giugno 1981 a oggi oltre 30 milioni di persone sono morte di Aids nel mondo e oltre 33 milioni vivono ora con l’Hiv. Questo significa che in 30 anni il virus ha infettato oltre 60 milioni di persone. Ogni ora circa 200 persone muoiono di Aids e ogni giorno si verificano circa 7.400 nuove infezioni, ma meno della metà quotidianamente inizia la terapia, nonostante i grandi progressi fatti nell’accesso alle cure. L’Aids non è affatto sotto controllo. Aggiungo un dato riferito al nostro Paese, in attesa che il nuovo sistema di sorveglianza delle nuove infezioni produca i dati, giacchè conosciamo solo i dati dei casi di Aids, non le nuove infezioni: in Italia sono presenti tra 143 mila e 165 mila persone Hiv-positive viventi, di cui più di 22 mila in Aids. Una persona sieropositiva su quattro non sa di esserlo.

Nessuno avrebbe mai pensato che da quei primi casi di americani maschi bianchi e gay si sarebbe giunti a questi numeri.

Quella che di fatto è originariamente una zoonosi, cioè un’infezione che ha fatto il salto di specie dalla scimmia all’uomo presumibilmente a seguito di incidenti di caccia in un’area dell’Africa centrale dove il consumo della carne di quell’animale è abituale, si è manifestata a migliaia di chilometri di distanza, rivoluzionando paradigmi e convinzioni e modi di fare ricerca. Nei primi anni Ottanta si iniziava a ipotizzare che potessero esistere retrovirus umani, ma non se ne conoscevano, e comunque il mondo dell’infettivologia era, per così dire, “contagiato” dall’ottimismo di quello che si sarebbe definito con un’espressione banale che ha fatto epoca: l’edonismo reganiano. Con l’identificazione dell’Hiv come agente causale dell’Aids mondiale si inaugurava la diffusione anche linguistica concettuale della metafora virale che pervade tutto il mondo contemporaneo, anche grazie alla diffusione del personal computer che inizia – verrebbe da dire esplode – in quegli stessi anni. Un periodo caratterizzato da ricchezza e ottimismo, che considerava certe minacce storiche cui era dovuto sottostare l’uomo – le epidemie e le infezioni – un problema definitivamente sotto controllo grazie agli antibiotici e ai primi antivirali come l’aciclovir. Già Pasteur diceva che i microbi hanno sempre l’ultima parola. All’improvviso il mondo si è risvegliato sotto una nuova minaccia di cui non conosceva la causa e che colpiva al cuore il modo con cui le persone comunicano: l’amore e la sessualità.

C’è però anche la questione della tossicodipendenza.

Vero, ma è stata questione e modalità di trasmissione molto più europea e in particolare del Sud dell’Europa e ora dell’Est europeo. Cosa che ha permesso a queste nazioni, come per esempio l’Italia, di vedere da subito un numero elevato di donne contagiate. In realtà questo virus, che si trasmette per via sessuale e per scambio e contatto di liquidi biologici – sangue, sperma, secrezione vaginale – in questi trenta anni ha dato luogo a una dinamica pandemica che noi per semplicità consideriamo e raccontiamo parlando di “epidemia di Aids”; in realtà, lo scenario è eterogeneo e forse sarebbe meglio parlare di “epidemie”. Oggi la maggior parte delle nuove infezioni si verifica tra gli eterosessuali. Tossicodipendenti e gay hanno vissuto nelle loro comunità il peso di un’epidemia che all’inizio era stata erroneamente imputata a loro. E per questo, prima di altri gruppi sociali hanno posto in essere comportamenti sicuri e preventivi.

Oggi chi si infetta?

Verrebbe da dire che nessuno è al sicuro se non adotta comportamenti sicuri. Ma per adottare comportamenti sicuri occorre avere conoscenza e percezione di cosa è rischioso. Oggi tra i tossicodipendenti la pratica dello scambio di siringhe è scarsamente praticata e comunque è cambiata la modalità di consumo. Tra i giovani gay esiste una ripresa delle nuove infezioni, forse perchè non hanno vissuto la botta dell’Hiv/Aids sul piano dell’identità come i loro compagni più anziani, che invece hanno guidato la risposta sociale all’emergenza. La maggior parte dei contagi avviene per via sessuale tra eterosessuali che non percepiscono il rischio nel fare sesso non protetto. Se ne parla di meno di Aids, forse anche in virtù dei successi della medicina, che è stata, almeno nel Nord del mondo, in grado di cronicizzare l’infezione da Hiv, e l’esito è che oggi circa la metà delle persone che giungono alle nostre cliniche hanno contemporaneamente la diagnosi di sieropositività e di Aids, con una grave compromissione clinica.

La lotta contro l’Aids è quindi vittima sul piano sociale del proprio successo e dell’efficacia percepita dei farmaci?

Per certi versi, se si vuole rimanere nel paradosso. Il farmaco è il surrogato di salute più accessibile. E le persone sono più disposte a prendere un farmaco rispetto a dover modificare i comportamenti, tanto più se il farmaco è nella percezione comune banalizzato e l’Aids narrata come condizione clinica “banale”. La realtà di tutti i giorni invece è diversa, affrontabile più facilmente rispetto a prima, ma di certo non banale. I farmaci che oggi abbiamo sono sicuramente più potenti, meglio tollerati e stiamo imparando a usarli anche in modo non convenzionale, legando direttamente terapia e prevenzione. Studi recenti mostrano l’efficacia dei farmaci dati precocemente anche nel ridurre e azzerare l’infettività della persona che li prende, estendendo sul piano sociale l’effetto contro il virus. È stato infatti introdotto il concetto di “carica virale di comunità” perchè si è visto, prima in modelli matematici, poi con dati sperimentali, che la diffusione e l’accesso precoce alle terapie è correlata con la riduzione di casi di sieroconversione in un dato territorio. Una delle strategie efficaci per spegnere l’epidemia, in attesa di vaccini preventivi, sta proprio in quel test&treat che viene proposto e sperimentato in varie aree del mondo.

Tutto sotto controllo o sono solo false speranze?

Le speranze per definizione non sono mai false, semmai sono solo male dimensionate o male posizionate. La scienza in se’ sta facendo il proprio dovere, mettendo a punto strumenti efficaci. Ma occorre renderli disponibili, accessibili. E in questo occorre che il laboratorio si integri, attraverso l’impegno dei decisori, con la società. Detto più esplicitamente: ho farmaci efficaci ma se non li rendo accessibili precocemente non ne ottimizzo il beneficio clinico per la persona che ne ha bisogno e la persona che ne avrebbe bisogno oltretutto apprende di averne bisogno tardi. L’Aids deve tornare in alto nell’agenda politica e della sanità pubblica, se ne deve riparlare in modo concreto e con risorse adeguate. E la priorità per tutti deve essere il test. Se si parla di Aids la gente può tornare a occuparsene senza per questo doversene preoccupare troppo tardi solo perchè contagiati e ammalati.

Fonte: FocusSalute.it

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