Il disagio psicologico dei ragazzi può prendere forme diverse a seconda che si tratti di maschi o di femmine; nelle femmine spesso tale disagio si esprime sotto forma di disturbo alimentare, con attenzione eccessiva al peso, all’alimentazione ed alla forma del corpo. La famiglia ne è sconvolta, l’impatto è forte e coinvolge tutti i membri, prima di tutto i genitori, ma anche fratelli e sorelle.
In questo articolo proviamo a dare alcune linee di orientamento, per cercare di comprendere cosa succede nella famiglia di una ragazza con disturbo alimentare. Parliamo soprattutto delle ragazze, che sono circa il 90-95% delle persone con diagnosi di disturbo alimentare.
Cos’è un disturbo alimentare
In senso ampio, la definizione medica è “persistenti disturbi del comportamento alimentare o di comportamenti finalizzati al controllo del peso, che danneggiano la salute fisica o il funzionamento psicologico e che non sono secondari a nessuna condizione medica o psichiatrica conosciuta”.
Concretamente significa che una ragazza, in buona salute, senza un motivo apparente comincia ad avere delle fissazioni ed ossessioni che riguardano il suo corpo, il suo peso e la sua alimentazione. L’adolescenza è l’età in cui nella maggior parte dei casi le ragazze, tra i 12 e i 25 anni, cominciano a soffrire di disturbi alimentari.
Le forme del disturbo sono diverse (anoressia, bulimia, binge eating disorder) ma c’è un fattore comune ed è l’eccessiva importanza attribuita a peso, forma del corpo, alimentazione. E’ questo il punto importante da comprendere. Il controllo su peso, forma del corpo, alimentazione è centrale per l’identità della ragazza, che valuta se stessa in relazione alla capacità di controllare il suo peso, inibire la fame, perseguire un ideale di magrezza non salutare.
Impatto sulla famiglia
Le caratteristiche cliniche, i danni fisici e psicosociali mettono a dura prova la famiglia. Nelle fasi iniziali i genitori non capiscono cosa succede, sono confusi, ma quando il disagio arriva al punto di dover consultare un medico, ecco che arriva la paura. Paura di trovarsi di fronte ad una diagnosi “psi”, che non è mai facile da accettare, paura di non sapere cosa fare, di non ritrovare mai più l’armonia familiare.
“E se non guarisse più?”
La declinazione della paura ha mille implicazioni, alcune delle quali sono inconfessabili. Perché si sa che la paura e la rabbia sono parenti strettissime. La rabbia per l’equilibrio familiare che va in crisi, le recriminazioni tra padre e madre, la preoccupazione per gli altri figli, la rabbia per quello che sembra un capriccio, le energie che non ci sono per aiutare la ragazza che sta male.
Già, come se fosse facile capire come aiutarla! E come se fosse facile aiutare qualcuno che, soprattutto all’inizio, non vuole essere aiutato!
Un groviglio di emozioni fortissime. Perché avere un disturbo del comportamento è molto difficile da far accettare, sembra che ci sia una colpa della persona malata che non vuole “guarire”. Non è come avere una malattia virale, “normale”. Terribile, certo, ma non è “colpa” tua, arriva da un fattore indipendente dalla volontà, invece non mangiare, pur avendo fame, è contro natura. Non parliamo poi del vomitare di proposito!
E ancora il senso di colpa dei genitori. Soprattutto le madri, anche per certa facile psicologia, negli anni passati sono state colpevolizzate come responsabili dei disturbi alimentari delle figlie. In realtà, oggi sappiamo che nessuno dei fattori predisponenti da solo spiega l’insorgere del problema. Anzi, la famiglia può essere fattore decisivo per proteggere ed aiutare l’uscita dal disturbo.
La famiglia ha spesso il problema di doversi difendere da informazioni facili, inadeguate, da ricette standard e false convinzioni che circolano sui media. Spesso passa il messaggio che il disturbo alimentare è “colpa” di un cattivo rapporto con la madre o che è un vuoto di affetto. Le semplificazioni non aiutano a comprendere cosa realmente succede.
Il carico sui genitori è amplificato anche dal fatto che la rete dei servizi specializzati non è distribuita uniformemente sul territorio. Sarebbe auspicabile una migliore rete di servizi, con un’offerta di gradualità per intensità, per seguire le pazienti in ambulatorio, in day hospital anche intensivo, piuttosto che in ricovero.
Cosa bisogna sapere
- La persona “ha” un disturbo alimentare, non “è” un disturbo alimentare. Mia figlia non “è anoressica”, ma è “una ragazza che soffre di anoressia”. Questo significa che le reazioni ostili, aggressive, incomprensibili derivano dal disturbo. E’ molto importante capire questo per relazionarsi nel modo corretto e separare la parte autentica della relazione dalla sovrastruttura imposta dal disturbo.
- La ragazza con un disturbo alimentare vive in un mondo ristretto, fatto di ossessioni e fissazioni. Ha poco spazio per una vita normale, che dovrebbe essere fatta di interessi, di gioco, di attività tipiche dell’età. E’un mondo che si restringe quanto più entra nella malattia. Ecco, cogliere i primi segnali di questo ritiro sociale può essere utile al genitore, per intercettare l’esordio nel disturbo. Bisognerebbe sempre cercare di favorire nei ragazzi una ricchezza di interessi che comprenda un equilibrio tra i doveri (lo studio) e attività che diano piacere autentico, nel rispetto dei gusti e delle attitudini della persona.
- I segnali di allarme sono: la riduzione delle attività extrascolastiche, calo del rendimento rispetto all’impegno e al tempo dedicato allo studio, irritabilità, ostilità, rifiuto e ritiro sociale, fissazioni e fobie su cibo, peso e aspetto fisico, attività fisica eccessiva.
- La ragazza con disturbo alimentare ha una serie di “pensieri disfunzionali”. Ad esempio, “valgo, se sono magra”, “se ingrasso, sono una nullità”, “se controllo la fame, sono brava”, “se mangio quel maccherone, ingrasserò”. Pensieri che, come abbiamo detto derivano dal disturbo. La terapia avrà tra i suoi scopi quello di interrompere e negare questi pensieri. Questo si ottiene attraverso il lavoro del terapeuta; tuttavia i genitori devono essere consapevoli e collaborare con il terapeuta, andando nella stessa direzione. Nella maggior parte dei casi, si hanno miglioramenti attraverso la comprensione che il valore della persona è ben più solido del suo peso o della sua magrezza.
- Attenzione anche al perfezionismo. Si tratta di una forma di fissazione sulle prestazioni, sui voti scolastici, sulla necessità di essere sempre prime. Spesso deriva da una pressione familiare e da aspettative elevate rispetto alle prestazioni, altre volte è auto alimentato, indipendentemente dalla famiglia. E’ bene in ogni caso, crescere i ragazzi con un senso equilibrato delle proprie competenze ed abituarli a sopportare anche le normali sconfitte quotidiane, come ad esempio qualche brutto voto. Non avere l’obbligo di essere perfetti è una condizione di salute.
- Non si esce da soli dai disturbi alimentari. Non bisogna aver paura di chiedere aiuto. A volte succede che si ritarda a rivolgersi ai servizi, si pensa di potercela fare da soli. Al contrario, è dimostrato che prima si interviene, migliori sono le probabilità di miglioramento ed uscita dal disturbo. Capita a volte che, se i genitori fanno una professione medica o simile, pensano di avere le risorse per farcela da soli. Un professionista ha molte possibilità in più, non perché sia più bravo, ma perché essere esterni è un vantaggio. Anzi, mai un professionista da solo, è necessario rivolgersi ad un equipe multidisciplinare, che comprenda medico nutrizionista, psicologo, psichiatra, dietista.
- Se c’è sottopeso, il ripristino delle condizioni minime di salute è presupposto indispensabile per l’instaurarsi di qualsiasi atto terapeutico. I sintomi del digiuno impediscono il rapporto terapeutico positivo, per cui la ragazza deve essere sostenuta fino alla ripresa di un peso compatibile con la vita.
- Come comportarsi in casa? Non bisogna concentrare la tensione nei momenti più critici (i pasti, il vestirsi ecc.), le discussioni e le comunicazioni critiche vanno rimandate. Se c’è sottopeso, il medico concorda con la ragazza le regole nutrizionali e comportamentali da seguire durante i pasti e gli obiettivi di peso da recuperare; ci sono argomenti dei quali si parla con il medico e con lo psicologo e non devono essere oggetto di contrattazione familiare.
Articolo scritto dalla dott.ssa Lia Cama, psicologa.
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